LA PROCESSIONE NEL PASSATO (dal racconto di Giovanni Cerone)

La processione del Venerdì Santo era una questione completamente diversa.
Ad accompagnare la Vergine e il Cristo non c’erano solo persone normali ma, le cosiddette, “dolenti”. Le più belle ragazze nubili, si recavano già diverse settimane prima, nel locale adibito al concerto bandistico di Rapolla, per provare e riprovare le canzoni del Venerdì Santo.
Il capo-banda era ed è ancora tutt’ora, Pasquale Cerone, nonché mio padre. Uomo straordinario, con una grande passione per la musica, con un forte senso dell’umorismo, amato e rispettato dagli uomini e venerato e corteggiato dalle donne. Imponente, in mezzo alla banda, suonando il bombardino, si spostava di continuo avanti e dietro dirigendo il gruppo che seguiva i movimenti delle sue mani e dei suoi occhi. Quando, a volte, rimproverava qualcuno, per la sua scarsa attenzione allo spartito, lo faceva con un garbo e con un rispetto tale che quello invece di ritenersi offeso se ne sentiva onorato.
La processione si svolgeva, a quei tempi, di sera. Attraversava tutto il paese e la strada delle cantine. Gli uomini facevano a gara chi doveva portare il Cristo a spalla. Si faceva una lista i cui iscritti si davano il cambio durante tutto il percorso.
Le ragazze, erano vestite tutte di nero, con i capelli sciolti sulle spalle e con un velo a ricoprire una parte di essi. Bellissime e seducenti come non mai, erano il motivo principale di attrazione per i ragazzi, e non a caso, spesso ad agosto, alcune di loro si sposavano ed altre erano in attesa di farlo con il pancione bene in vista. Le melodie erano travolgenti, sensuali.
Mio padre, artista di grande talento, aveva insegnato loro come modulare il tono della voce seguendo il ritmo della musica. Le loro voci si innalzavano verso il cielo ormai completamente buio, con il plauso della luna che vegliava e seguiva il corteo, responsabile degli amori che via via fiorivano ad ogni angolo di strada. Due ali di folla seguivano la Vergine, anch’essa vestita in nero, con un cuore d’argento trafitto da spade, e con gli occhi imploranti verso il Cielo. Ognuno aveva tra le mani un cero acceso, la cui fiamma tremolava per le voci e la musica struggente.
Durante il percorso ogni proprietario metteva al centro della strada un tavolo con un grande fiasco e numerosi bicchieri.
Il Cristo era letteralmente cullato (nazzcann) dai portatori al ritmo triste della musica. Ogni cantina offriva loro ristoro e riposo. Al termine della processione si ritrovavano ubriachi fradici, ma estremamente felici, anche se i più, il mattino dopo, non lo ricordavano nemmeno. All’epoca si diceva che costoro non erano del tutto normali e che avessero il baricentro del cervello inclinato.
Vero o falso che fosse, neanche il prete, a mio parere doveva essere del tutto a posto. Onorava ogni cantina con un fervore religioso sospetto, tanto che alla fine arrivava in chiesa e si metteva seduto sulle panche come un parrocchiano comune, mentre la gente lo guardava divertita e insolente.
Tuttavia, a parte il prete, che non aveva l’alibi della fatica, i portatori non hanno mai ceduto o cambiato il ritmo del loro lento avanzare e cullare Gesù, il quale, ne sono sicura, se la spassava a forza di risa, mettendoli alla prova e diventando ad ogni bicchiere di vino, via via più pesante. Le gambe che si muovevano instabili, non hanno mai ceduto, e, ancora oggi, io mi chiedo come facessero ad essere così in sintonia. Dieci uomini, ubriachi di vino e di grande amor proprio, a reggere fiaschi e fiaschi di buon aglianico,vino rosso, vellutato, profumato e robusto. Si muovevano con lo stesso passo, quasi danzando, per una strada che non era proprio ideale per loro.
Da lontano la processione sembrava non essere di questo mondo. Il Cristo appariva cullato da mani invisibili e seguito da centinaia di ceri accesi, con una melodia così triste che induceva al pianto. Le ragazze, vezzose e intriganti, guardavano di nascosto i ragazzi con sorrisi appena accennati. Questi, le seguivano e ogni tanto offrivano loro delle caramelle per rinfrancare la gola e lo spirito. La partecipazione della gente all’epoca era massiccia. Le mamme con i bambini in spalla addormentati accompagnavano la processione fino alla sua conclusione.
Il sabato, giorno di riflessione e di silenzio, era utile per riprendere le forze e per prepararsi per la Santa Pasqua onorandola con pasti abbondanti ,grandi bevute e tante risate. Bersaglio e materia degli argomenti da tavola erano di volta in volta sia i portatori che le affascinanti ragazze. Anche il prete era oggetto di scherno per la sua totale dedizione e alla tradizione e al buon vino.
Oggi la processione è cambiata. Asettica, sterile e … inquietante, si svolge alle tre di pomeriggio per le strade cittadine e non più per le cantine. Scivola per le strade, come se fosse inseguita dal tempo, distante e assente dai nostri cuori. Ha perso il suo entusiasmo, la sua dolcezza, il suo grande coinvolgimento emotivo e la partecipazione della gente è scarsa e poco sollecita. Il Cristo non è più quell’uomo vezzeggiato e cullato con amore, vivo e partecipe, ma un cadavere eccellente di gesso che sfila per il paese. Sono scomparsi i portatori e anche il prete è più serio (forse astemio) e … meno credibile di allora.
Le ragazze dolenti hanno lasciato un grande vuoto. Poche decine di loro vestite a vivaci colori, cantano ancora, ma senza il fascino e il mistero di allora. Che tristezza! Sono cambiati anche gli argomenti da tavola e, forse, anche quelli di letto.
Ora si discorre della vita di Tizio o di Caio, in modo ristretto e … vuoto. Mio padre è l’unica costante rimasta inalterata nel tempo. Intatto il suo amore per la musica, ferma la sua attenzione ai ragazzi e, soprattutto, ancora più vivo il suo senso dell’umorismo. Dio lo benedica e lo conservi ancora a lungo!

- Testo e foto tratti dal sito http://www.tanogabo.it.